lunedì 25 aprile 2011

Riflessioni parte 2a

Bologna è la stessa,

siamo noi a cambiare

Ho passato l’ultimo anno in giro per tre città: Bologna, quella
che mi ha adottato, Roma il nuovo amore, infine Lecce e
Squinzano, i luoghi della mia nascita.

Di Squinzano non ho mai conosciuto il nome di una via.
Credo sia legge universale per tutti ignorare i nomi delle
strade del paese dove si è cresciuti. Si arriva nei posti per
punti di riferimento: la casa di, la scuola, la chiesa, il negozio.
Di Lecce conosco pochissimi nomi, e meno ancora riferimenti.

Di Roma, a furia di andare e venire da un anno, comincio
a riconoscere punti cruciali, vie principali, zone: a grandi
linee so quando sono a nord, a sud e così via. Inoltre non
sbaglio a prendere la metro (sì lo so, non è poi così difficile
con due sole linee) e aspetto diligentemente numeri di
autobus degni delle migliori giocate al lotto (gli autobus
non arrivano mai e si sale anche dalle porte centrali, cosa
per la quale a Bologna ti bacchettano all’istante).

Di Bologna conosco tutto: vie, stradine, quartieri,
punti d’interesse. So trovare i posti che mi serve
raggiungere, mi so muovere con i mezzi pubblici,
sono in grado di indicare a chi guida la strada da
fare (pur non avendo più la patente) evitando le
preferenziali, posso calcolare i percorsi migliori in
bicicletta e mi piazzo al centro dell’incrocio della stazione
passando dal verde pedonale un attimo prima che scatti il
semaforo per le auto, per risparmiare un secondo anticipando
chi, dalla parte opposta, voglia svoltare alla sua sinistra
(piazzarsi al centro dell’incrocio non è comportamento del
tutto corretto, ma impedisce di morire per lo smog durante
il tempo del rosso).

Ultimamente però ho avuto dei problemi. Mi sono ritrovata in
autobus a chiedere il nome di piazza Malpighi confondendola
con Cavour, San Francesco e Minghetti.
Piazza dell’Unità no, è troppo vicina a casa mia
e avrei dovuto dubitare sul mio stato di salute se ciò fosse
accaduto.

Mi sono chiesta che cosa stesse accadendo: mi sono
ambientata a Bologna talmente tanto da ignorare i nomi
delle vie come i nativi di qualunque posto oppure sto
rimuovendo piano piano i nomi della mia amata città
per far posto a “cose ingombranti” tipo piazza Venezia,
via del Corsoo come la paesana piazza Vittoria meglio
conosciuta come “la villa” o la borghese-leccese piazza
Sant’Oronzo?

Quando partivo dal Salento diretta al nord avevo sempre
la lacrimuccia, almeno il primo quarto d’ora, commossa
dall’immagine di mia madre, mio padre e il cane di mio
fratello, Dino, tutti e tre con la stessa faccia da pesce e
l’occhio lucido (il cane si offende quando parto, di
norma è così).

La settimana scorsa invece la lacrimuccia è stata la mia,
il giorno prima di partire da Bologna, sapendo che almeno
per un po’ sarà il mio luogo di “villeggiatura” e non di “residenza”.

Sempre l’ultimo giorno, passeggiando nel parco dell’Ippodromo
(altra caratteristica è quella di disertare luoghi se pur vicini a
casa fino al momento di doverli lasciare e quindi ritenerli
all’improvviso degni di visita, preziose e irrinunciabili mete),
una mia cara amica mi disse che lasciando Bologna la volta in
cui aveva vissuto un anno fuori dall’Italia aveva pensato che
avrebbe trovato dei grandi cambiamenti al ritorno e invece
una volta rientrata le sembrò che nulla fosse accaduto nel
frattempo.

Questo è quello che provavo io tutte le volte in cui tornavo al
mio paese del sud. Arrivavo e mi sembrava che niente si fosse
spostato neppure di un centimetro mentre io conoscevo,
guardavo, imparavo, facevo, mi muovevo, in poche parole: vivevo.

p.s.: dicono che Bologna sia cambiata, ma forse
siamo noi che siamo cambiati.

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